domenica 28 febbraio 2010

Saṃsāra

 

Ho sempre avuto un presentimento, che la mezza eta' fosse un tempo di passaggio. 
Tanto che - ridendo col mio amore che fu - gli dicevo non ti preoccupare della differenza d'anni, non mi dovrai sopportare per molto e comunque del futuro non v'e' certezza. 
Il destino - e forse un disegno divino - traccia tappe, segnali come le stazioni della Via Crucis, o le cappellette di campagna ad ogni crocevia. 
Ecco perche' figli in giovane eta', amori unici irripetibili, una vita in fermento, e poi la catarsi. 
Il distacco dalle cose materiali, dagli affetti, l'attrazione verso il spirituale, la preparazione a mutar stato, energia. 
Avrei preferito un compagno di viaggio, pellegrino sul cammino di Santiago, o sostegno per la salita finale a Medjugorje, ove pare che il sole pulsi, ritorno all'uovo primordiale. 
I sogni sono premonitori, e quei fantasmi, quella signora con la bambina in braccio, era la madre. 
E se la madre chiama, si deve andare.

sabato 27 febbraio 2010

Che ne sara' di noi

 

Dai titoli e servizi sulla manifestazione odierna del Popolo Viola contro il legittimo impedimento e' facilmente desumibile come la partecipazione sia stata scarsa: di positivo i tanti giovani; di negativo che a tre mesi di distanza si e' persa per strada gente, e gli errori si pagano, perche' ogni presenza e' preziosa e fondamentale.
Che cio' serva da monito per correggere la rotta, e comunque se la strada e' tracciata si possa ancora camminare. 
E che si impari ad ascoltare la gente, ogni persona, intervento, suggerimento, critica, poiche' dalle stelle alle stalle il salto e' minimo, e se si spegne la fiamma poi resta la cenere. 
Gli errori: una data troppo ravvicinata e in concomitanza ad altri eventi, non rimandata per motivi esulanti; una presunzione e sicumera che nei movimenti portano piu' danno che utile; dubbi di trasparenza mai chiariti; troppi partiti e poco movimento; un eccesso di media, interviste, ribalte e dei soliti noti; la promozione di un libro contingente all'avvenimento; incoerenze e contraddizioni fra enunciati e gestione. 
Vero che c'e' la rete - Internet, quale presenza virtuale, ma altrettanto vero che in piazza conta la gente, e la gente non vuole essere contata solo come numero, ma quale persona che conta in un movimento. 
Il medesimo errore non e' solamente tipico dei movimenti di piazza, ma pure di altri movimenti di resistenza o antagonisti, e il tempo poi dimostra come se non si recupera subito ogni 'fuga', un movimento sia destinato ad una irreversibile eutanasia. 
Chi altresi' persevera nell'errore di valutazione ed azione - non ammettendo sbagli e non attuando correttivi - nascondendosi dietro barricate elitarie o pseudo giustificativi ideologici, e' destinato al fallimento assieme al movimento d'appartenenza, poiche' coraggio, onesta' intellettuale e umilta' imporrebbero autocritica e verita'. 
Certamente risulta facile criticare seduti comodamente in poltrona o dietro un monitor, pero' sovente chi resta fermo e' perche' non ha avuto - o perduto o interrotta - la spinta e la voglia di alzarsi e partire. 
Alla gente - in tempi in cui si perdono posti di lavoro, soldi, speranze e futuro - non bastano piu' riunioni di belle parole o scendere in piazza per poi tornare a casa disperati e soli come prima; o peggio ancora rendersi conto per l'ennesima volta di essere usata per dar lustro a qualcuno.
Ci vogliono motivazioni talmente proprie, intense e passionali, da innamorarsi di una causa e di chi la promuove, sostiene ed accompagna. 
Rox populi.

mercoledì 24 febbraio 2010

Trapasso

 

E se a pari passo 
appaiati da destini 
gemelli all'ombra 
d'un tempo 
compagno
in passaggio 

Un viaggio che 
si credea d'inizio 
alfine dal compiersi 
assieme cosi' sia 
preziose albe di luce 
vita ed oltre trafitti.

Inno a Iside

 

Perché io sono la prima e l'ultima. 
Io sono la venerata e la disprezzata, 
Io sono la prostituta e la santa, 
Io sono la sposa e la vergine, 
Io sono la madre e la figlia, 
Io sono le braccia di mia madre, 
Io sono la sterile, eppure sono numerosi i miei figli, 
Io sono la donna sposata e la nubile, 
Io sono Colei che dà alla luce e Colei che non ha mai partorito, 
Io sono la consolazione dei dolori del parto, 
Io sono la sposa e lo sposo, 
E fu il mio uomo che nutrì la mia fertilità, 
Io sono la Madre di mio padre, 
Io sono la sorella di mio marito, 
Ed egli è il mio figliolo respinto. 
Rispettatemi sempre, 
Poiché io sono la Scandalosa e la Magnifica.

 III-IV secolo avanti Cristo, rinvenuto a Nag Hammadi Egitto

lunedì 22 febbraio 2010

Saluto zapatista



20 Febbraio 2010 
Saluto dalla Delegada Zero 
Ai Movimenti 
Visibili e Invisibili 
passati presenti futuri 

Signore e signori, giovani, compagni/e di viaggio 

Questa mia lettera vuole essere un saluto da parte di chi non c'e' ma che in qualche modo c'e', ripercorrendo le tappe del viaggio. 
E' trascorso tempo ormai dal concepimento dei Movimenti - una gravidanza non certo facile talora isterica – ma alquanto fremente di vita. 
Trepidanti, si e' assistito alla nascita delle creature, con tutte le ansie e aspettative che precedono e seguono un evento cosi' unico qual e' l'atto di creazione, irripetibile nella sua originarieta'. 
Designando a madrine e padrini una collettivita', ognuno si e' sentito responsabile - consapevole, del ruolo affidatogli, col corredo di fisiologiche incongruenze che comporta l'atto d'accudimento e di cura, e che ogni genitore conosce assai bene. 
Non e' semplice crescere una creatura in un Paese ove governa - regna il malaffare - la mafia che non e' una geografia bensi' forma mentis di un idem pensare e sentire; preservarla significa riconoscere un nemico che sovente piu' che fuori da noi, e' insito in noi. 
Basta prenderne atto e correggere la rotta. 
Fare un movimento non e' difficile, bastano belle idee e buona volonta', i problemi sorgono in seguito, nel conciliare teoria e pratica, coerenza e contraddizione, e nessuno ne e' esente, gli errori servono appunto a modificare continuamente modi e tempi, e a rivedere i propri schemi mentali e ideologici. 
Si tratta di un'azione in costante logorio, ove non v'e' spazio per credo assoluti, retoriche ed enunciazioni sulla carta, poiche' si sperimenta tutto sul campo - e il campo puo' essere talvolta minato o talmente scivoloso da cadere e poi rialzarsi, con la stessa dignita' e forza che han concesso l'inizio del cammino. 
Camminare scalzi. 
Vuol dire spogliarsi da sovrastrutture, interiori ed esteriori, e comprendere - accettare, che la perfezione risiede proprio nell'imperfezione. 
Purche' si sia onesti intellettualmente, in primis con se stessi e con gli altri. 
Al soffio di queste prime vite - non di nascita ma di concezione - cio' che non e' ancora pira ma nemmeno fuoco fatuo, vorrei che per un attimo prima dei festeggiamenti si celebrasse innanzitutto il buon augurio d'auspicio, lo scambio di simbolici anelli d'unione - simbolici ma reali, invisibili ai piu' ma legami a chi sa, puo', vuole vederli. 
D'altronde se nemmeno il Subcomandante Marcos e' riuscito nel suo Chiapas a realizzare il proprio sogno di giustizia e liberta', non significa che l'utopia non debba imparare a camminare - anzicheno a volare - con passetti nudi di bambina. 
Quindi la sola cosa che mi interessa or ora e' il lasciar vivere - scorrere - liberare, librarsi, quanto di piu' innocente, dissacrante, vero ancora dentro se'. 

Arrivederci e perdonate questa mia sorridente lettera, da cuore a cuore che batte sempre a sinistra, grazie del viaggio assieme sin qui. 

Dalla Via Emilia all'Est, ad Ovest di Paperino 
Delegada Zero Italia 
nel secondo mese dell'anno 2010 

mercoledì 17 febbraio 2010

Dieci anni fa usciva Q

 

Successi e insuccessi di Movimento Rete Zapatismo... e Q

E intanto si va avanti, e l'esercito di animali di Don Durito va avanti, e nessuna sconfitta e' definitiva, e i cuori continuano a battere. 

autore: WuMing1 

DIECI ANNI FA USCIVA Q marzo 2 0 0 9 , prima settimana 

Tra pochi giorni, il 6 marzo 2009, cadrà il decennale dell'uscita di Q in libreria. È il momento di riflettere raccontando, per continuare a camminare domandando. Riflettere su come eravamo: lo zapatismo, Q, Seattle, Genova e quel che è seguito. "È impossibile sminuire le nostre responsabilità. Noi Wu Ming fummo tra i più zelanti nell'esortare la gente ad andare a Genova, e più di altri aiutammo il potere a tendere l'imboscata. Dopo il bagno di sangue, ci occorse un bel po' di tempo - e molto rimuginare - per capire quali fossero stati i nostri errori, quelli specifici, nel quadro più ampio degli errori del movimento." 0. UN REGALO DALLE SCIMMIE Accadde una gelida notte del Marzo 2001. 
Accadde a Nurio, stato di Michoacán, Messico, dove rappresentanti di tutte le tribù indigene del Paese si erano riuniti per chiedere una legge sui diritti degli indios. 
Era il terzo incontro del Congresso Nazionale Indigeno, in larga parte una creazione degli Zapatisti - quei poeti guerrieri, sapienti nell'uso dei media, che sette anni prima erano apparsi come dal nulla, dai recessi del tempo. Perché gli U2 avevano torto: a volte qualcosa succede, il primo giorno dell'anno. A volte un esercito di contadini maya coi visi coperti da passamontagna occupa una città e trasmette un messaggio a milioni di persone. 
Era successo a San Cristóbal de las Casas, Chiapas, Messico, l'1 gennaio 1994.
Ed eccoci lì, sette anni dopo, nelle tenebre intorno a Nurio, e c'erano gli Zapatisti, e c'era anche il Subcomandante Marcos, perché quell'incontro si svolgeva durante la famosa - e seguita in tutto il mondo - "Marcha de la Dignidad".
La marcia: schiere di persone su corriere malconcie, migliaia di miglia, dalla selva chiapaneca a un affollatissimo Zócalo, la più grande piazza di Città del Messico. Venti giorni di viaggio, venti giorni di poesia distillata da Marcos in sette discorsi allegorici chiamati "le Sette Chiavi"
Nurio era una tappa della marcia, e c'eravamo anche noi Wu Ming, o almeno: uno di noi. Sì, perché Marcos e gli Zapatisti erano accompagnati da gente di ogni dove, processione multiforme di giornalisti, attivisti, intellettuali, artisti e parassiti. Noi eravamo giunti dall'Italia, membri di una bizzarra delegazione che gli autoctoni chiamavano "monos blancos", scimmie bianche. Era un gioco di parole, perché "mono" in spagnolo significa anche "tuta". 
A casa, infatti, c'erano le "tute bianche". In uno strano contorcimento sematico, un indumento da lavoro era divenuto provvisorio emblema di disobbedienza civile, e molte persone lo indossavano ai cortei. Quel mono lo tenemmo addosso per l'intera marcia, e smise di esser blanco molto prima che arrivassimo a Città del Messico. Non c'erano molte occasioni di fare il bagno, ed eravamo tutti belli sudici.
A volte la parola "scimmie" era usatacon intento dispregiativo, xenofobico, specialmente dai giornali reazionari, ma adottammo il nome a nostra volta e, durante la marcia, scrivemmo un raccontino allegorico, La favola della scimmia bianca, che iniziava così:
 Dopo molti anni, il nero scarabeo Don Durito aveva deciso di uscire dalla selva, e così chiamò a raccolta tutti gli animali, al di qua e al di là del mare, perché lo accompagnassero fino alla città. Molti animali scesero dalle montagne e altri arrivarono dal mare. Il più strano di tutti era una scimmia bianca che veniva da molto lontano. Il suo colore contrastava così tanto con il colore della terra da farla sembrare fuori luogo. Gli altri animali guardavano stupiti quello strano esemplare, che arrancava a fatica in un territorio ignoto, sotto un sole che la sua pelle non conosceva. Goffa e bizzarra, la scimmia bianca faceva ogni cosa per rendersi utile e dimostrare che il suo posto era là. Arrivò molte volte per ultima alle soste previste, ma arrivò sempre.

Avevamo parvenza di straccioni, eppure - come talvolta capita agli straccioni - doveva esserci un che di nobile (o almeno di interessante) nel nostro modo di fare, se la Comandancia dell'esercito zapatista ci mise a fare il servizio d'ordine. Non è uno scherzo: a un certo punto, durante la marcia, i monos blancos italiani divennero la security dei comandanti.
Era più che altro una performance: molta apparenza, poca sostanza. Chissà che avevano in mente Marcos e gli altri quando presero la decisione. Forse volevano solo farsi due risate.
Per fortuna, le scimmie non si davano arie.
Beh, insomma, non troppe. Ecco, non sempre. 
E anche se ce le fossimo date, il costante flusso di ingiurie da parte dei media reazionari - col contributo del presidente Vicente Fox in persona - ci avrebbe rammentato di continuo cos'eravamo davvero. Scimmie. Sporche, lacere, imbranate, importune scimmie. - Non conosci il fiume, ma hai le mani grandi e forti. Costruisci un ponte per raggiungere l'altra sponda.
Così la scimmia bianca, gratificata da tanta responsabilità, si mise all'opera di buona lena. Lavorava sotto la pioggia e sotto il sole, di giorno e di notte, mentre la volpe di nascosto la calunniava presso gli altri animali. E i pappagalli le facevano il verso.
- La scimmia bianca non è una di noi. Non abita qui, è di un altro colore. Non dovete fidarvi, il ponte che sta costruendo crollerà e affogherete tutti.
L'orso, il coyote, la scimmia nera, del colore della terra, osservavano il lavoro della scimmia bianca e discutevano tra loro:
- Viene da lontano, ma è nostra amica. Sta lavorando per farci arrivare alla città.
- Non è il suo fiume, non sappiamo chi è, non possiamo fidarci.
Ma il vecchio Don Felix, l'aquila che dall'alto vedeva tutto, andava dicendo che Don Durito aveva affidato quel compito alla scimmia bianca proprio perché era così diversa e veniva da tanto lontano. Forse proprio per questo motivo il suo lavoro avrebbe avuto un significato più grande per tutti.

Infine, arrivammo a Città del Messico, dove brillammo nella luce riflessa dagli Zapatisti. L'inviato del quotidiano di sinistra La Jornada scrisse: Domenica 11 , lungo il tragito da Xochimilco allo Zócalo, i monos blancos italiani, che scortavano la caravona zapatista, hanno visto per pochi secondi un cartello, uno tra i molti con cui i cittadini dialogavano a modo loro, dai lati della strada, con la comandancia generale dell'EZLN. Su quello era scritto: "LE SCIMMIE BIANCHE HANNO LE PALLE". Questo ha compensato tutti gli insulti rovesciati dai media su questi europei, che per giorni e giorni sono stati oggetto di attacchi xenofobici. Ma torniamo a quella fredda notte di Nurio. Che accadde in quel bivacco sull'altipiano centrale del Messico? Che accadde di tanto speciale? Beh, di speciale niente. Fu soltanto un piccolo gesto. Mentre si era intenti ad accendere un falò, il nostro delegato [Wu Ming 4] si avvicinò al Subcomandante e gli donò una copia del nostro romanzo Q, firmato col precedente nome "Luther Blissett". Era una copia dell'edizione spagnola. Sulla prima pagina, una dedica: A "El Sub" con el calor de la lucha en una noche fría, un mono blanco (ahora de todos los colores de la tierra), casualmente autor de este libro Il Subcomandante lesse e parve incredulo: - ¿Eres el autor? ¿Y eres un mono blanco? - Si'. Junto a otros tres chicos, monos blancos también. Marcos ringraziò e si allontanò col libro in mano. Quando il ponte fu costruito per metà, Don Durito radunò tutti gli animali sulla riva del fiume. Poi condusse la scimmia bianca alla finestra, così che tutti potessero vederla. E rivolgendosi agli animali disse: - Sta costruendo un buon ponte, ma non può terminarlo da sola. Nessuno può farlo da solo. La scimmia bianca, spaesata, gli chiese: - Ma allora perché fino ad ora hai fatto lavorare soltanto me? Don Durito chiuse la finestra e lasciò che la scimmia bianca si specchiasse nel vetro. Lei si guardò e non si riconobbe. Il suo pelo non era più così bianco. Adesso era del colore della terra. 1. MARCOS, MÜNTZER E Q (1994-99) [... ] Ho lottato [...] al fianco di uomini che hanno creduto davvero di porre fine all'ingiustizia e all'empietà sulla terra. Eravamo migliaia, eravamo un esercito. La speranza si infranse nella piana di Frankenhausen, il quindici di maggio del 1525. Allora abbandonai un uomo al suo destino, alle armi dei lanzichenecchi. Portai con me la sua sacca piena di lettere, di nomi e speranze. Oltre al sospetto di essere stati traditi, venduti alle schiere dei principi come un gregge al mercato -. È ancora difficile pronunciare quel nome. - Quell'uomo era Thomas Müntzer. Non lo vedo, ma percepisco lo stupore che lo assale, forse l'incredulità di chi pensa di avere davanti uno spettro. La sua voce è quasi un bisbiglio: - Davvero hai combattuto con Thomas Müntzer...? - Luther Blissett, Q A tutt'oggi, non sappiamo se Marcos abbia mai avuto occasione di leggere il romanzo. Negli anni trascorsi da allora, è stato sovrannaturalmente indaffarato. Ad ogni modo, fargli dono di una copia aveva un significato preciso. Per noi era la chiusura di un cerchio: dalla "Guerra dei contadini" del XVI secolo (il tema del romanzo) al Levantamiento zapatista. La Guerra dei contadini fu la più grande rivolta popolare della sua epoca. Scoppiò nel cuore del Sacro Romano Impero e fu selvaggiamente repressa nel 1525, un anno prima che i Conquistadores spagnoli iniziassero la sanguinaria invasione del Sud del Messico e distruggessero la civiltà dei Maya. Il Levantamiento zapatista è stato la più influente ribellione contadina dei nostri tempi; ha avuto luogo nel Sud del Messico per iniziativa di attivisti maya e ha ispirato lotte in tutto l'odierno profano impero. Chiamatelo "chiasmo", se volete. La Guerra dei Contadini fu un evento prefigurante, proprio come il suo principale agitatore, Thomas Müntzer, fu un prefigurante personaggio. Si trattò, alla lettera, di una pre-figurazione: l'ordine sociale che Müntzer e i contadini rivoluzionari si figuravano era molto in anticipo sui loro tempi, anzi, è ancora in anticipo sui nostri, eppure... Eppure non fu soltanto un'allucinazione collettiva seguita da esplosioni di violenza. Quella è l'interpretazione conservatrice che parte da Martin Lutero e arriva a Norman Cohn, il quale descrisse Müntzer come un precursore dei totalitarismi moderni e della follia nazista, ma sono tutte stronzate. I contadini tedeschi erano ben lungi dall'essere matti: avevano programmi sociali (per quanto rozzi) e obiettivi concreti da realizzare. I loro bisogni erano reali e la loro prassi radicata nella realtà sociale dell'epoca. I loro successi parziali furono tangibili: conquistarono città, formarono consigli rivoluzionari e scossero la struttura di potere dalle fondamenta e poi su, su, fino a far saltare i denti marci dei principi. In un territorio feudale diviso in innumerevoli città-stato, la Guerra dei contadini fu una rivolta senza frontiere, nazionale e pan-germanica ben prima che la Germania diventasse una nazione. Gli errori dei contadini, ideologici e strategici, furono immanenti a quel contesto storico-sociale, ma la loro politica aveva iniziato a trascenderlo. Vennero sconfitti e massacrati, certo, ma la loro eredità è ancora tra noi, sepolta nel terreno sotto i nostri piedi, e può riaffiorare ogni volta che l'ordine sociale è contestato dal basso. La retorica dei capi contadini risuona ancora attraverso i secoli [1]. Per molti versi e molte voci, Müntzer ci parla ancora. Di sicuro, parlò a quattro attivisti della controcultura, a Bologna, alla fine del 1995, due anni dopo che il Levantamiento aveva attraversato l'Atlantico ispirando, tra varie cose, un fenomeno chiamato "Luther Blissett Project". Nella prima metà degli anni Novanta l'identità collettiva "Luther Blissett" fu creata e adottata da una rete informale di persone (artisti, attivisti, hackers) interessate a usare il potere dei miti e andare oltre la "controinformazione" e l'agit-prop. A Bologna, la mia cerchia di amici convideva un'ossessione per l'eterno ritorno di figure archetipiche, come eroi popolari e tricksters. Trascorrevamo le giornate esplorando la cultura pop, studiando il linguaggio degli zapatisti messicani, raccogliendo storie di beffe mediatiche e guerriglia comunicativa dagli anni Venti ai giorni nostri (storie del dadaismo berlinese, serate futuriste etc.). Guardavamo e riguardavamo un particolare film, Colpo secco di George Roy Hill, protagonista Paul Newman nei panni del giocatore di hockey Reggie Dunlop. Ci piaceva molto, Reggie Dunlop, era il trickster perfetto, l'Anansi delle leggende africane, il Coyote delle leggende nativo-americane, Ulisse che manipola la mente del ciclope. Perché non costruire il nostro "Reggie Dunlop", il "trickster dai mille volti", un golem fatto col fango di tre fiumi (la tradizione agit-prop, il folklore, e la cultura pop)? Perchè non far partire un gioco di ruolo completamente nuovo, usando tutti i media disponibili al momento, per diffondere la leggenda di un nuovo eroe popolare, alimentato dall'intelligenza collettiva? - Henry Jenkins III, "Di come Colpo secco ispirò una rivoluzione culturale: un'intervista con la Wu Ming Foundation", ottobre 2006 Le strategie comunicative degli Zapatisti ebbero una grande influenza sul LBP. Riferimenti al Subcomandante e all'EZLN si possono già trovare nei primissimi testi prodotti da Luther Blissett: "Nel film Spartacus di Stanley Kubrick, tutti gli schiavi sconfitti e catturati da Crasso dichiarano di essere Spartaco, come gli Zapatisti sono tutti Marcos e io siamo tutti Luther Blissett." (Mind Invaders, 1995) A intrigarci era soprattutto il modo in cui gli Zapatisti evitavano di incorniciare la loro lotta in uno qualunque dei frame del Novecento, e rifiutavano logore dicotomie come Riformismo vs. Rivoluzione, Avanguardia vs. Masse, Violenza vs. Non-Violenza etc. Gli Zapatisti, non potevano esserci dubbi, erano parte della sinistra, ma sembravano rigettare qualunque rappresentazione lineare destra-sinistra, in un modo che non aveva niente a che vedere coi "né destra né sinistra" blaterati da certi fascisti. Il linguaggio degli Zapatisti si discostava dallo stereotipato "terzomondismo": ponevano la riappropriazione e l'uso creativo di vecchi miti, leggende e profezie al servizio di una grande visione, quella di un nuovo transnazionalismo (Huey P. Newton lo avrebbe chiamato "intercomunitarismo"). La "comunità" di cui parlavano gli Zapatisti era una comunità aperta, andava oltre i confini delle etnie di cui erano portavoce. "Todos somos indios del mundo", dichiaravano. Venivano dal più derelitto cantone del mondo conosciuto, eppure in poco tempo entrarono in contatto con ribelli di tutto il pianeta. La strategia mediatica degli Zapatisti faceva a meno dei soliti leader bramosi di telecamere. Nei primi giorni del Levantiamiento, Marcos dichiarò: "Io non esisto, sono solo la cornice della finestra", poi spiegò che "Marcos" era solo uno pseudonimo ed egli era non era che un "sotto-comandante", perché era un bianco mentre i comandanti erano tutti indios. Aggiunse che tutti potevano essere Marcos, ed era quello il vero senso del passamontagna: questa rivoluzione non ha volto, perché ha tutti i volti. "Se volete vedere la faccia sotto il passamontagna, prendete uno specchio e guardatevi". [Anni dopo, "Questa rivoluzione non ha volto" divenne il primo motto di Wu Ming]. Da lì prese le mosse Luther Blissett. Molti commentatori hanno cercato di risalire a supposte "origini situazioniste" del progetto (vicolo cieco come mai ve ne furono), mentre la verità era sotto gli occhi di tutti. L'esempio degli Zapatisti aiutò il LBP a definire il suo intento: strappare l'uso dei miti dalle mani dei reazionari. Il Luther Blissett Project fu un piano quinquennale e durò dal 1994 al 1999. Centinaia di persone, in Italia e in altri paesi, adottarono il nome e parteciparono a beffe mediatiche, programmi radio, fanzine, video, teatro di strada, performances, azioni politiche e scritti teorici. A Bologna, almeno una cinquantina di agitatori rimase attiva dall'inizio alla fine. Nell'autunno 1995 alcuni di loro iniziarono a baloccarsi con l'idea di scrivere un romanzo storico. Quel romanzo sarebbe diventato Q. Pregni com'eravamo di suggestioni zapatiste, decidemmo quasi subito di raccontare la storia di un'insurrezione contadina, anzi: della madre di tutte le insurrezioni moderne, contadine o no che fossero. Sapevamo già di Müntzer. Da adolescente, per un breve periodo, uno di noi aveva fatto parte di un gruppo marxista in cui leggere Friedrich Engels era praticamente obbligatorio, ed Engels aveva scritto La guerra dei contadini in Germania. Inoltre, per quanto possa suonare strano in un paese così cattolico, l'Italia ha un'interessante - ancorché recente - tradizione di studi su Müntzer e le correnti radicali della Riforma protestante. I sermoni di Müntzer furono pubblicati per la prima volta in Italia nel 1970. Nel decennio a seguire, periodo fortemente politicizzato, la figura di Müntzer fu studiata e discussa con intensità. In un anno cruciale come il 1989, studiosi da tutta Europa (compresa l'ormai prossima alla fine Germania Est) si trovarono a Ferrara - a una quarantina di chilometri da Bologna - per una conferenza intitolata: "Thomas Müntzer e la rivoluzione dell'uomo comune". Ma perché tornare a raccontare quella storia? Perché un romanzo storico su un soggetto tanto anacronistico? Che significato potevano mai avere Thomas Müntzer e la Guerra dei contadini nei "ruggenti anni Novanta"? Il "comunismo" era stato sconfitto, la "democrazia" aveva vinto, la fede nel Libero Mercato era tanto indiscussa che in Francia si era coniata l'espressione "Pensiero unico". L'ideologia neoliberista era trionfante. Davvero volevamo scrivere un romanzo su degli straccioni proto-comunisti dimenticati da chissà quanto? Certo che sì. In tempi di tracotanza controrivoluzionaria, al culmine del "decennio più avido della storia" (come lo avrebbe chiamato Joseph Stiglitz), un libro del genere era più necessario che mai. Ben presto, ci imbattemmo in un'opera del drammaturgo tedesco Dieter Forte, una tragicommedia del 1970 intitolata Martin Lutero e Tommaso Münzer, esplicita allegoria del '68 tedesco. Quel testo ebbe su di noi un impatto poderoso. Ci diede il calcio in culo per iniziare a scrivere. A dire il vero, la Guerra dei contadini e la predicazione di Müntzer erano solo l'inizio della storia che volevamo narrare: la vicenda di Q copre più di trent'anni di storia europea, dal 1517 (anno in cui Lutero inchiodò le sue tesi al portone della cattedrale di Wittenberg) al 1555 (anno della Pace di Augusta). Quegli anni tumultuosi sono, per storici e narratori, un serbatoio di preconizzazioni e tentativi pionieristici, perché i ribelli e i rivoltosi di quel periodo sembrano aver provato ogni sorta di tattiche e strategie. Se prestiamo al XVI secolo l'attenzione che ci chiede, incontreremo anarchici, proto-hippies, socialisti utopici, leninisti tutti d'un pezzo, maoisti mistici, stalinisti folli, le Brigate Rosse, l'Angry Brigade, i Weathermen, Emmett Grogan, Fra' Tuck, il punk, Pol Pot e il compagno Gonzalo di Sendero Luminoso. Una grande armata di spettri e metafore. Inoltre, troveremo sabotatori culturali, body-artisti, autori di pamphlet, pubblicisti di fanzines etc. Il nostro personaggio principale, eroe privo di nome, si fa coinvolgere in ogni progetto sovversivo gli capiti a tiro, dalla Guerra dei contadini alla presa della città di Münster da parte degli Anabattisti; dalla setta terrorista degli Armati della Spada (capeggiata da Jan Van Batenburg) alla comunità loista di Anversa; dal commercio di libri proibiti in Svizzera e Nord-Italia alla fuga finale dall'Europa, verso l'impero ottomano. La terza parte del romanzo echeggia alcune pratiche blissettiane come la disseminazione di notizie false e la creazione di un personaggio virtuale (Tiziano l'anabattista) allo scopo di confondere i poteri costituiti. Ciononostante, non vi è dubbio che Müntzer sia uno dei personaggi centrali. È quello che più resta impresso nella memoria dei lettori. Quello che volevamo fare era scrivere un libro feroce e appassionato, un libro che fosse consapevole di sé in quanto prodotto culturale (anzi, in quanto arma culturale), ma al tempo stesso non si nascondesse dietro il dito del disincanto cinico. Un romanzo che annunciasse il ritorno di una narrativa popolare radicale. Il mondo aveva bisogno di romanzi d'avventura scritti da gente che credeva in quel che faceva, disposta a sporcarsi le mani e mostrarle a tutti. Nel marzo del 1999, l'uscita di Q fu il nostro contributo finale al Luther Blissett Project, che terminò a dicembre. Quando il romanzo fu pubblicato in Gran Bretagna, lo scrittore Stewart Home (foto a destra) lo descrisse come un esempio di "postmodernismo proletario", e l'accento cadeva sull'aggettivo, non sul sostantivo. Postmodernismo proletario. Etichette provvisorie come questa segnalano sempre che è in corso un cambiamento. Più tardi ne avremmo coniata una anche noi: "New Italian Epic" [2]. 2. "QUELLI DI SEATTLE", OVVERO: IL CASTELLO SOTTO ASSEDIO (1999-2001) Loro si dicono nuovi, si battezzano con sigle esoteriche: G8, FMI, WB, WTO, NAFTA, FTAA... Ma non ci ingannano, sono quelli di sempre: gli écorcheurs che razziarono i nostri villaggi, gli oligarchi che si ripresero Firenze, la corte dell'imperatore Sigismondo che attirò Ian Hus con l'inganno, la Dieta di Tubinga che obbedì a Ulderico e annullò le conquiste del Povero Konrad, i principi che mandarono i lanzichenecchi a Frankenhausen, gli empii che arrostirono Dozsa, i proprietari terrieri che tormentarono gli Zappatori, gli autocrati che vinsero Pugaciov, il governo contro cui tuonò Byron, il vecchio mondo che vanificò i nostri assalti e sfasciò ogni scala per il cielo. Oggi hanno un nuovo impero, su tutto l'orbe impongono nuove servitù della gleba, si pretendono padroni della Terra e del Mare. Contro di loro, ancora una volta, noi moltitudini ci solleviamo - Dalle moltitudini d'Europa in marcia contro l'impero, primavera 2001 All'uscita di Q seguì un lungo giro di presentazioni in tutta Italia (e nel Canton Ticino). Incontrammo centinaia di lettori in posti di ogni genere: centri sociali, biblioteche, librerie, festival etc. Rispondemmo alle loro domande, discutemmo con loro. Durante quel tour annunciammo che, dopo la fine del LBP, avremmo avviato un nuovo progetto, più specifico, focalizzato sulla narrazione e con nessuna scadenza di fronte a sé. Wu Ming era dietro l'angolo. Eravamo ancora in tournée quando esplose la "Battaglia di Seattle". 30 novembre 1999. Quella sera arrivammo a Lodi e presentammo il libro alla biblioteca comunale. Anziché parlare del romanzo, delirammo su quel che era appena accaduto al vertice della WTO. Sentivamo che era l'inizio di qualcosa di grande. Quel nuovo movimento lanciava una sfida alle istituzioni globali che regolavano dall'alto il "libero mercato": il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l'Organizzazione Mondiale del Commercio e svariati altri vampiri. Il 2000 fu un anno di intensa organizzazione, protesta e contestazione di importanti summit. Le manifestazioni più significative furono a Praga a fine settembre, quando migliaia di manifestanti ridicolizzarono un vertice congiunto di FMI e Banca Mondiale. C'eravamo anche noi. A un certo punto, il movimento decise che lo showdown, la prova di forza, sarebbe stato la terza settimana di luglio 2001, a Genova, dove era in programma un summit del G8. Sarebbe stato il primo G8 dall'elezione di George W. Bush alla presidenza USA. Nell'aprile 2001, manifestanti da tutto il Nord-America si radunarono a Québec per protestare contro il trattato ALCA. I cortei furono radicali e variopinti, la protesta molteplice e creativa. Molte anime del movimento si intrecciarono a formare corde, non solo metaforiche ma anche letterali, corde con ganci in fondo per tirare giù il "Muro della vergogna" (il grande steccato che recintava la zona del summit). E indovinate un po': eravamo anche lì, e ci parve un'esperienza bella e promettente in vista di Genova. Intanto, in Italia e non solo, accadevano strane cose. Ai cortei, capitava di imbattersi in gente conciata come Bibendum, l'omino della Michelin: portavano caschi, tute bianche e, sotto le tute, ogni sorta di protezione corporale: paraspalle da football americano, salvastinchi, giubbotti salvagente, cuscini, pannelli di spugna o gommapiuma. Vedevi centinaia di quegli strani personaggi impugnare scudi di plexiglass o alzare tutti insieme barricate mobili fatte di pneumatici, per poi marciare verso i celerini in una formazione a testuggine. Non avevano strumenti di offesa, soltanto protezioni per impedire ai manganelli di spaccar loro le ossa. Alcuni la chiamavano "disobbedienza civile protetta", o - all'estero - "disobbedienza civile all'italiana". Percepimmo con chiarezza, in quell'inedita pratica di piazza, qualcosa di "blissettiano", e presto iniziammo a collaborare con quella gente, quasi tutti orfani - come, in modo più sghembo, alcuni di noi - della vecchia Autonomia. La tuta bianca non è una divisa, e l'immaginario che suscita non è, NON DOVREBBE MAI ESSERE di stampo militaresco. Chi si muovesse in quella direzione commetterebbe un grave errore politico/simbolico.
La tuta bianca non è un'identità, un'appartenenza, un "intruppamento". La tuta bianca è uno strumento. Non si dovrebbe mai dire "Sono una tuta bianca", bensì: "Indosso la tuta bianca".
Le tute bianche sono goffe, ridicole, più volte sono state paragonate agli omini della Michelin, vicendevolmente si scoppiano a ridere in faccia, quando la polizia carica non possono scappare e sono bersagli facili, è come investire in bicicletta una mucca in un corridoio [...] Le azioni delle tute bianche sono quasi tutte volte a titillare l'ugola dei ridanciani [...] Gli slogan delle tute bianche sono ironici in un'accezione calda ("Peace & Love" associato a immagini di scontri, "Stiamo arrivando / bastardi stiamo arrivando!" cantato sull'aria di Guantanamera mentre si avanza a mani alzate sapendo che si prenderanno un sacco e una sporta di mazzate). Le narrazioni che le tute bianche scrivono su sé stesse sono auto-sarcastiche, come La favola della scimmia bianca [...] Le tute bianche sono consapevolmente ridicole, e sinora è stata questa la loro forza. Quando cesseranno di esserlo, urgerà cambiare strumento.
- Wu Ming 1, "Lettera a Limes sulle tute bianche" (mai pubblicata), giugno 2001 Ma non fu l'unico strano fenomeno di cui ci rendemmo conto in quei giorni, perché nei contesti più inattesi cominciò ad apparire... lo spettro di Thomas Müntzer. Vi fu una sorta di corto-circuito tra Q e il movimento. Grazie al passaparola e a Internet, il romanzo stava diventando un best-seller internazionale. Iniziammo a vedere il motto "Omnia sunt communia" su pareti e striscioni. Iniziammo a vedere citazioni da Q usate come "firme" nelle e-mail di svariati attivisti. Nei forum del movimento, c'era chi adottava nickname come "Magister Thomas" o "Gert dal Pozzo". Non era che il principio di una strana, controversa, tormentata relazione tra il nostro lavoro letterario e le lotte in corso. Nei mesi che ancora ci separavano da Genova, il nome "Wu Ming" finì per essere associato più alle nostre trovate "agit-prop" che alla nostra narrativa. Fu soprattutto colpa nostra, perché ci calammo nelle lotte con tanta convinzione da sovrapporre i due contesti (si vedano i numeri di Giap degli anni 2000 e 2001). Ad esempio, anche se non era firmato, tutti sapevano che avevamo scritto noi l'appello Dalle moltitudini d'Europa in marcia contro l'impero e verso Genova, che nella primavera del 2001 fu continuamente inoltrato, fotocopiato, stampato su volantini e riviste, recitato, trasmesso alla radio, scritto sui muri etc. Su L'Espresso del 22/06/2001, lo storico Franco Cardini scrisse: L'appello è una dichiarazione di guerra. Politica e storica: ma anche transtorica e transpolitica, metastorica e metapolitica. I potenti della Terra riuniti a Genova per il G8 e i loro colti e strapagati consulenti e collaboratori non si troveranno davanti solo il "popolo di Seattle", i ragazzini delle scuole, i ragazzacci dei centri sociali e un po' di disgraziati e di fricchettoni assortiti in vena di suonar chitarre e di spaccar vetrine. O meglio, quelli ci saranno, certo: ma con loro, dietro di loro, assieme a loro, dentro di loro marcerà un immenso Popolo di Morti. E il documento le passa in rassegna, queste armate coperte dalla polvere dei secoli e disperse dal vento della storia e le chiama per nome, con l'epica pignoleria dell'omerico "Catalogo delle Navi"... Ovviamente, Müntzer era uno degli antenati rivendicati dal "noi narrante" dell'editto: "Siamo l'esercito dei contadini e dei minatori di Thomas Müntzer [...] I lanzichenecchi ci sterminarono in Turingia, Müntzer fu straziato dal boia, ma chi poteva più negarlo? Ciò che apparteneva alla terra, alla terra sarebbe tornato." In quelle settimane scrivemmo, da soli o con altri, molti testi d'agitazione, e ideammo performances e azioni che avessero impatto mediatico (come la "Notte delle statue parlanti"). Ci abbiamo riflettuto, e siamo convinti di una cosa. Il fantasma di Müntzer, Q e - di conseguenza - noi autori del romanzo ci ritrovammo al centro della mobilitazione perché là dentro stava prendendo forma una grande metafora. Sempre più spesso, l'impero era descritto come un castello assediato da una moltitudine di contadini. La metafora ricorreva in diversi scritti e discorsi. A volte era esplicita, molto spesso era sottopelle, ma c'era, e il suo emergere era dovuto a tanti fattori. 1. Senza eccezioni, i vertici si svolgevano in zone chiuse e militarizzate (le famigerate "zone rosse"), il che dava l'immagine di un regime assediato dai contestatori. Le manifestazioni prendevano le forme di "blocchi": più il potere voleva tenere lontani i cittadini, più questi ultimi costringevano i potenti a incontrarsi in grotteschi, presidiatissimi fortilizi. Metaforicamente parlando, si rinchiudevano nei loro castelli. 2. Il movimento era effettivamente composto (anche) da contadini. La sua anima era ecologista, e lottava contro gli Organismi Geneticamente Modificati. In Francia, la Confédération Paysanne [Confederazione contadina] di José Bové [foto a destra] era molto attiva nel distruggere piantagioni di OGM - nonché nel devastare i McDonald's. 3. Gli Zapatisti erano ogni giorno più popolari tra gli attivisti in Europa e Nord-America. Erano il più affascinante movimento contadino del mondo. 4. Il Forum sociale mondiale del movimento si tenne diverse volte a Porto Alegre, in Brasile, paese dove era attivo, diffuso, fortissimo un altro movimento contadino, quello dei Sem Terra. Benché suggestiva ed efficace, la metafora era fallace. Nessun assedio era in corso, perché non si poteva assediare un potere che era ovunque e la cui principale manifestazione erano flussi di elettroni in continuo transito di borsa valori in borsa valori. Quella fallacia avrebbe avuto conseguenze pesanti. Stavamo scambiando le cerimonie formali del potere per il potere stesso. Stavamo facendo lo stesso errore di Müntzer e dei contadini tedeschi. Avevamo scelto un campo di battaglia e una presunta giornata campale. Stavamo andando tutti a Frankenhausen. 3. FRANKENSTEIN A FRANKENHAUSEN - Quando è cominciata la vostra fuga? [...] - Ve l'ho detto, da quando preti e profeti pretesero d'impadronirsi della mia vita. Sono stato con Müntzer e i contadini contro i principi. Anabattista nella follia di Münster. Giustiziere divino con Jan Batenburg. Compagno di Eloi Pruystinck tra gli spiriti liberi di Anversa. Una fede diversa ogni volta, sempre gli stessi nemici, un'unica sconfitta. - Luther Blissett, Q Thomas Müntzer ci stava parlando, ma non capimmo le sue parole. Non era una benedizione, ma un avvertimento. È impossibile sminuire le nostre responsabilità. Noi Wu Ming fummo tra i più zelanti nell'esortare la gente ad andare a Genova, e più di altri aiutammo il potere a tendere l'imboscata. Dopo il bagno di sangue, ci occorse un bel po' di tempo - e molto rimuginare - per capire quali fossero stati i nostri errori, quelli specifici, nel quadro più ampio degli errori del movimento. Era evidente che qualcosa era andato storto nella nostra prassi "mitopoietica", la costruzione di miti dal basso che era - e per certi versi è ancora - il fondamento del nostro lavoro. Per "mito" non abbiamo mai inteso una storia falsa, cioè l'accezione più banale e superficiale del termine. Abbiamo sempre usato la parola per indicare una narrazione di grande valore emblematico, il cui significato sia compreso e condiviso da una comunità (es. un movimento), i cui membri continuino a narrarla e socializzarla. Ci interessano le storie che creano legami forti tra esseri umani. Le comunità continuano a socializzare quelle storie, e mentre le socializzano le mantengono (quando tutto fila liscio) vive e ispiranti. Continuando a raccontarle se ne favorisce l'evoluzione: quel che accade nel presente modifica il nostro sguardo sul passato; di conseguenza, cambia il modo di mettere in comune le stesse storie, che si arricchiscono di nuove risonanze e significati allegorici. I miti ci mettono a disposizione esempi da seguire o rifiutare, ci danno un senso di continuità o discontinuità col passato e ci permettono di immaginare un futuro. Senza di essi non potremmo vivere, la nostra mente funziona così, il nostro cervello pensa attraverso narrazioni, metafore, allegorie. Ad un certo punto, una metafora può sclerotizzarsi e divenire sempre meno utile, finché non si svuota di ogni significato e diviene un nauseabondo cliché, ostacolo alla crescita di storie ispiranti. Quando ciò avviene, è nostro dovere cambiare rotta e andare in cerca di nuove immagini e parole. I movimenti rivoluzionari o progressisti si sono sempre dotati di miti, di storie da raccontare per andare avanti. Il più delle volte, quei miti sono durati più di quanto fosse utile, fino a diventare alienanti. Rigor mortis del linguaggio, "lingua di legno", metafore che asservivano le persone anziché renderle libere. La generazione che seguiva ha spesso reagito negando il passato e sviluppando atteggiamenti iconoclasti. Una frazione di ogni generazione ha visto nei miti ricevuti in eredità niente più che storie false. Alcuni hanno lottato per "smitizzare" la teoria e i discorsi, che ciò dovesse avvenire nel nome della ragione, della correttezza politica, del nihilismo o della semplice idiozia (come nella posizione che vorrebbe il mito "intrinsecamente fascista"). Nessuno può cancellare il mito dalla mente degli umani. Di fatto, ogni iconoclasma finisce per generare il culto di nuove icone, contro cui si scaglieranno gli iconoclasti di domani. Il ciclo non si interromperà mai, finché non capiremo come funzionano quelle narrazioni. Il problema dei miti non sta nella loro intrinseca falsità, verità o pseudo-verità. Il problema dei miti è che si rapprendono e inaridiscono quando li diamo per scontati. Il flusso dei racconti va tenuto vivo e vivace. Dobbiamo narrare con sempre nuovi mezzi, cambiando sguardi e punti di vista. Dobbiamo mantenere le storie in costante esercizio, per impedire che, indurendosi, ci intasino la mente. Chiaramente, si tratta di un compito difficilissimo, e per molte ragioni. Prima di tutto, è fin troppo facile sottovalutare i rischi del lavoro sui miti. C'è sempre il pericolo di operare come il dottor Frankenstein o, peggio ancora, Henry Ford. Un mito non si crea per forza di volontà, come su una catena di montaggio, né lo si richiama alla vita in qualche laboratorio privato. O meglio: si può anche fare, ma con sgradevolissime conseguenze. Riprendendo - non senza critiche e aggiustamenti - alcune osservazioni di Karoly Kerenyi (foto a destra), il mitologo italiano Furio Jesi lavorò sulla netta distinzione tra un approccio "genuino" ai miti e una loro evocazione forzata per un fine specifico (solitamente politico in senso stretto). Pensiamo a Mussolini che descrive l'invasione dell'Abissinia del 1937 come "la riapparizione dell'impero sui colli fatali di Roma". Kerenyi e Jesi chiamarono quest'utilizzo "tecnicizzazione dei miti". Il mito tecnicizzato si rivolge sempre a quelli che Kerenyi chiamava "dormienti", ovvero persone il cui spirito critico è assopito, perché le potenti immagini evocate dai tecnicizzatori hanno travolto la coscienza e riempito l'inconscio. Ad esempio, corriamo il rischio di "assopirci" durante l'incredibile prima mezz'ora di Olympia di Leni Riefenstahl (1938). Al contrario, un approccio "genuino" ai miti richiede lo stato di veglia e la disponibilità all'ascolto. Dobbiamo porre quesiti al mito e accogliere le risposte che ci dà, dobbiamo studiare i miti, andarli a cercare nei loro territori, con umiltà e rispetto, senza tentare di catturarli e condurli a forza nel nostro mondo e nella nostra realtà contingente. Il mito tecnicizzato è sempre "falsa coscienza", anche quando si opera "a fin di bene". Soprattutto quando si opera a fin di bene. In un saggio intitolato Letteratura e mito, Jesi si chiedeva: "Com'è possibile indurre gli uomini a comportarsi in un determinato modo - grazie alla forza esercitata da opportune evocazioni mitiche -, e successivamente indurli a un atteggiamento critico verso il movente mitico del loro comportamento?". E si rispondeva: "Non sembra praticamente possibile". Nel "periodo d'oro" del movimento globale (dall'autunno 1999 all'estate 2001), noi cercammo di intervenire nello spazio tra l'avverbio ("praticamente") e l'aggettivo ("impossibile"), cercando di usare il primo per forzare il secondo. Ritenevamo la risposta di Jesi troppo pessimistica. Credevamo che "aprire l'officina", mostrare a tutti come venivano processati i "mitologemi" - le unità concettuali minime, i "noccioli" allegorici delle narrazioni mitologiche - fosse sufficiente a fornire gli strumenti della critica. La nostra chimera era la "giusta distanza": non tanto vicini al mito da rimanerne abbagliati, nè tanto lontani da non avvertirne fascino e potere. Era un equilibrio difficile da mantenere, e infatti non lo mantenemmo. Perché il problema è anche: chi è l'artefice della mitopoiesi, l'evocatore, lo sciamano, l'ostetrico? Spetta a un intero movimento, comunità o classe sociale maneggiare i miti e mantenerli vivi. Nessun gruppo separato può auto-incaricarsi di questo. Noi, invece, finimmo per diventare "funzionari" alla manipolazione delle metafore e all'evocazione dei miti. La nostra divenne una quasi-specializzazione. Eravamo una cellula agit-prop. Eravamo spin doctors. Dalle moltitudini d'Europa...- soprattutto se declamato dai nostri amici Anna Rispoli e Antonio Amorosi - faceva cantare i nervi, faceva venire la fotta di andare a Genova, ma il punto non era quello. Noi non conseguimmo mai "un atteggiamento critico verso il movente mitico del [nostro] comportamento". "Praticamente" non schiuse mai "impossibile". Al momento, non c'è altra alternativa che questa: continuare a esplorare il mito, restare in ascolto, avere un approccio non strumentale, trarre lezioni dal mito senza evocarlo a forza, senza ridurne la complessità, senza testarne un'aerodinamicità direttamente politica nella "galleria del vento" delle coincidenze tra passato e presente. A Genova non si verificò una sconfitta "militare", ma una catastrofe culturale. 20 luglio 2001. Quel venerdì pomeriggio, in quello stradone chiamato via Tolemaide, nessuno indossava la tuta bianca. Pochi giorni prima, si era deciso di estendere la pratica della "disobbedienza civile protetta" al maggior numero di persone possibile. Persino un simbolo aperto come la tuta bianca sarebbe stato d'intralcio a quello scopo. Ragion per cui, fu solo per riferimento a una prassi condivisa che il corteo partito dallo stadio "Carlini" si auto-definì "dei disobbedienti". La d era minuscola, si sappia. Poi venne ucciso Carlo Giuliani, e la repressione fece sbandare tutto e tutti. Migliaia di persone dovettero combattere per tornare allo stadio, come la gang dei Guerrieri che cerca di tornare a Coney Island. Calata la notte, ci sentivamo bersagli di un tiro al piccione. Eravamo atterriti, ma dovevamo scendere di nuovo in strada, dovevamo farlo. A quel punto, la nostra sola speranza era che tantissime persone raggiungessero Genova per soccorrere chi già c'era. Il giorno dopo arrivarono in trecentomila, a salvare i nostri miserandi culi. Per la maggior parte, non erano militanti stagionati e "duri": quelli erano già in città. Si trattava, semplicemente, di persone che avevano visto il carnaio alla tv e avevano deciso di muoversi. Come Valerio Mastandrea, che incrociammo per strada. Aveva spento il televisore, preso l'auto e guidato tutta notte. Quel sabato pomeriggio decidemmo che, per quanto fossimo vissuti, non avremmo mai voltato le spalle a quella moltitudine. La salvezza stava nel rimanere aperti, onesti e comprensibili. La salvezza stava nel rimanere sempre lontani dal settarismo. Fu allora che cominciammo, confusamente, a pensare una nuova metafora, che avrebbe incorporato la critica a quelle precedenti: Genova come Frankenhausen. A un tizio capitò di sentirci conversare, e ci chiese: - Ma chi è 'sto Frank Enàusen che continuate a nominare? Due mesi dopo ci fu l'11 Settembre e la situazione si fece ancor più dura, in Italia e nel mondo. La metafora dell'assedio si capovolse, e gli assediati eravamo noi. Nel 2003 il movimento italiano era già in profonda crisi. Nemmeno la grande mobilitazione contro la guerra all'Iraq potè infondere nuova energia in quel corpo ormai stanco. Giorno dopo giorno, l'articolazione italiana del movimento più globale di sempre prendeva sempre meno le distanze dal nomignolo "no global", e pian piano regredì a presenza marginale, si ridusse a un inter-gruppi che occupava lo spazio dell'estrema sinistra tradizionale. Il solito, tedioso ruolo, interpretato seguendo le solite, tediose regole. Un drappello di "rivoluzionari di professione" si impadronì di quel che restava, commise ogni sorta di errore e si rivelò immensamente inadeguato. Riemersero strategie e tattiche fossili, sub-leniniste. Grandi quantità di tempo ed energie vennero dissipate in guerre identitarie tra correnti. Le assemblee divennero patetici combattimenti di galli. La maggioranza delle persone più sensibili e "non reggimentate" (soprattutto donne) si scoraggiarono e lasciarono perdere. Anche noi facemmo quella scelta. Una sedicente avanguardia di ex-tute bianche si imbarcò in nuovi progetti che noi ritenemmo grotteschi, progetti la cui descrizione non è tra gli scopi di questo scritto. Del resto, non c'era nulla di straordinario: simili scelte si son sempre viste, al tramonto di un ciclo di lotte. A ben vedere, la collaborazione tra noi e quel network era durata poco più di un anno (dalle mobilitazioni anti-OCSE di Bologna agli spasmi del dopo-Genova). Così passa la gloria del mondo. Da quei giorni, abbiamo dedicato tempo e sforzi a stringere le viti del nostro progetto letterario, abbiamo scritto nuovi romanzi e saggi, abbiamo esteso e consolidato la nostra presenza nella cultura e nell'industria culturale di questo paese. Ben lungi dall'aver abbandonato la lotta, abbiamo comunque ben chiaro un intento: non faremo mai più i dottorini Frankenstein coi miti tecnicizzati. E intanto si va avanti, e l'esercito di animali di Don Durito va avanti, e nessuna sconfitta è definitiva, e i cuori continuano a battere. 
Note 1. La cosa non dovrebbe stupire: Thomas Müntzer era un antenato collaterale - e non per questo meno importante - degli odierni Battisti, e molti di noi conoscono la retorica battista grazie all'attivismo della chiesa nera, ai discorsi di Martin Luther King, all'influenza di quella retorica su tutta la cultura afroamericana. Si pensi ai discorsi pieni d'immagini di un altro oratore radicale, Malcolm X, che da adulto scelse un'altra religione ma era cresciuto nella chiesa battista. Malcolm comunicava con parabole (il "negro domestico" che non vuole fuggire dalla piantagione, George Washington che baratta uno schiavo per un barile di melassa etc.) e ricorreva a riferimenti biblici diretti e obliqui, riferimenti che il suo pubblico poteva riconoscere con facilità. Persino le sue invettive contro il clero traditore ci riportano alla mente le parole dette da Müntzer quattro secoli prima, quelle del Manifesto di Praga. 

2. Tuttavia, il postmodernismo borghese è nell'occhio di chi guarda, soprattutto se a chi guarda sfugge il contesto. Mentre la natura del romanzo fu ben compresa in Europa, molti Americani la fraintesero del tutto. Negli USA - paese i cui milieux accademici sono pesantemente intossicati da metadiscorsi d'ogni sorta - Q approdò come un bastimento dal carico indescrivibile. Certi critici descrissero l'esperienza di leggerlo all'opposto di come l'avevano descritta i lettori europei. Recensendo il libro sul Washington Post, un certo David Liss definì Q "più un anti-romanzo che un romanzo". A suo dire, non si trattava che di "giochini postmoderni" fini a se stessi. Ovviamente, per poter descrivere Q in questo modo, è necessario fare a monte una scelta molto chiara: rimuovere dal romanzo tutto quanto riguardi il conflitto sociale. Va però detto che molti letterati americani si sono talmente abituati a non trovare conflitto sociale dispiegato in un romanzo, da non aver nemmeno bisogno di fare la scelta: non lo vedono nemmeno quando c'è, e riempiono il buco di metadiscorso.

sabato 6 febbraio 2010

Le Mans


 
Corsa magica perfetta 
si' lo so giammai fermarsi 
ma si puo' oramai raggiunto 
il punto di non ritorno 
non sondar l'imperscrutabile 
ove inceppa l'ingranaggio? 

Ad un palmo da vittoria 
restar col becco in palmo 
sentirsi pari a quel motore 
che su linea di traguardo 
s'ingrippa e stride? 

Odo metallici suoni 
odor d'olio bruciato 
pilota navigatore 
l'elettronica crashata 
spionaggio industriale.

Or la corsa s'e' fermata 
bandiera a scacchi 
scacco ai regnanti
la voce arroca sulla torre 
ritrovarsi in diagonale 
d'un equino o d'un somaro? 

Dalle stelle alle stalle 
dai biada zuccherino briglie 
ma io brada in corsa pazza 
criniera ribelle 
vento rosso manto 
non puoi domarlo. 

Il mio numero e' dieci 
come l'amato capitano 
puoi tradirmi 
darmi in pasto a fiere 
ingorde di guerriglia 
pur io sono il comandante
e tu il clone.

mercoledì 3 febbraio 2010

Fermo immagine

 

Fermo immagine color ruggine d'auto d'epoca 
cigolante nei pistoni la palla al cuore. 
Vorrei scrivere, leziosa d'amor scherzoso, dal titolo: 
Non morir domani senza aver letto la mia poesia. 
La prima strofa: Sorrido, solitamente vergo succinta 
seguendo il suon delle parole piu' del senso, 
un simil tema preludio all'amor giocoso. 
Avrei voluto poetare in versi di silenzi taciti assensi, d'assenzio. 
Di come da bambini ci si cerca si complotta ci si manca. 
Di quando, quanto sorrido e rido quale scanto in tale rimpiattino. 
Dell'amore atto eccelso di follia chi sei tu chi sono io 
a negare l'evidenza che approdo' a tanto oblio. 
Fermo immagine sul foglio straripa ai margini 
macchie bluastre spande a tamponare una carezza. 
L'onta non fu tua ne' mia e' la vita pesa, pena
fuggita l'utopia qual finale vuoi che sia. 
L'immagine si ferma s'arresta, 
fissa sulla strofa interrotta 
non morir domani, senza.

lunedì 1 febbraio 2010

Mamma ho perso il lavoro

Crisi: due generazioni a confronto. 
Il problema reale e' che se un tempo c'erano le classi sociali, e la gente vi si riconosceva, e sapeva da che parte collocarsi, oggi non si e' piu' ne' carne ne' pesce, e non si ha alcuna intenzione di mettersi tra - con - i pezzenti. 
L'appartenenza ad una classe - proletariato o borghesia - significava condividerne valori od osteggiarli, comunque iniziare da una base d partenza comune, ove non v'era nemmeno necessita' di elencarne principii o dogmi. 
 Mio figlio trentenne - disoccupato - parlando di politica mi ha detto che secondo lui solo dieci anni di crollo stile Argentina puo' risollevare l'Italia, aggiungendo che del governo salvava solo la Gelmini e Brunetta. 
Ovviamente me lo sono 'mangiato', rispondendo che il male della Tv era giunto sino a lui, perche' quei due facevano solo demagogia, non risolvevano i problemi reali del Paese della gente, ma erano solo specchietti mediatici, tanto rumore per nulla cambiare in sostanza. 
E che invece di preoccuparsi di condotte od assenteismo altrui, dovrebbe lui stesso preoccuparsi di non trovare lavoro, se avesse una famiglia da mantenere. 
Quindi prima esigenza avercelo il lavoro, poi guardiamo pure chi lavora male, alias prima si cambi governo - chi comanda in Italia - e poi gli italiani. 
Il figliolo ha poi ammesso di essere influenzato dalle televisioni, indi per cui suppongo che per avere una democrazia compiuta reale in Italia si dovrebbe in primis vietare le campagne elettorali su televisioni e radio - pubbliche e private - in modo da costringere la gente ad informarsi altrove - giornali, rete, piazze - ove comunque c'e' piu' confronto e discussione. 
Senza la Tv tanti politici e non solo, non sarebbero nessuno, e le persone si riapproprierebbero della loro identita', sentendosi e facendo blocco comune, senza scatenare guerre tra poveri, tra chi ha lavoro garantito e chi no, tra chi ha dieci euro in piu' e tra chi beve pinot, lambrusco oppure acqua. 
Ho ricordato a mio figlio che a cinquanta anni non mi sento, non sono affatto privilegiata, e che ove un giorno non arrivassi piu' io a mantenermi, suo dovere non tanto morale ma quanto legale sarebbe per lui provvedere al mio mantenimento.
Per cui che preghi che mamma stia sempre in salute e non venga licenziata - altro che Gelmini e Brunetta - e si preoccupi piuttosto di uno Stato assente e dei soldi che ci ruba, non di quello che si guadagna onestamente, e che ha permesso alle nuove generazioni di ascoltare minchiate in televisione.